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Mindfulness originariamente traduce il termine sanscrito sati, di grande ampiezza semantica e difficilmente traducibile con una sola parola. Sati è memoria del presente e presenza mentale, è conoscenza di ciò che accade in campo fenomenologico (Bodhi, 2011). Mindfulness significa portare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Mindfulness è quindi un processo che coltiva la capacità di portare attenzione al momento presente, consapevolezza e accettazione del momento attuale (Hanh, 1987).

La mindfulness ha diversi effetti benefici sulla mente e sul corpo, influisce positivamente sia sul funzionamento che sulla struttura del cervello, sia sul sistema immunitario, come dimostra un crescente numero di ricerche scientifiche sull’argomento. La scienza evidenzia non solo un miglioramento della concentrazione, della memoria e della capacità di regolazione emotiva, ma anche una maggiore capacità di gestire lo stress con una conseguente riduzione  dei sintomi ad esso correlati, generando un senso di calma, pace ed energia.

Praticare mindfulness può quindi essere il sostegno ideale per chi ha uno stile di vita stressante per ragioni di lavoro o famigliari, e più in generale per chiunque voglia mantenere o ritrovare un equilibrio fra le richieste del mondo esterno e il prendersi cura di sé  dal punto di vista sia psichico che fisico.

Migliora infatti anche la salute fisica, ed è particolarmente utile per chi soffre di problemi cardiaci, di pressione alta, di difficoltà gastrointestinali e di dolori cronici, e anche quella mentale con riduzione dei sintomi legati alla depressione e all’ansia e valore preventivo rispetto a possibili ricadute. La mindfulness può essere un’eccellente integrazione a cure mediche e psicologiche, aumentandone l’efficacia, e la sua pratica regolare ha effetti positivi duraturi che crescono nel tempo e che si estendono anche a chi ci sta intorno.

La ragione di un simile successo è stata fotografata da uno studio di Harvard, apparso su Science con un titolo che non lasciava spazio a equivoci: Una mente distratta è una mente infelice. Lo studio è del 2010, ma l’intuizione si fa risalire a 2.500 anni fa, quando Buddha, seduto a gambe incrociate sotto un albero, avrebbe preso coscienza della realtà per quello che è, cioè del qui e adesso, e avrebbe smesso di soffrire per i mali del mondo. Accanto all’interpretazione buddhista, questo antico episodio ha una lettura psicofisiologica: sotto quell’albero il monaco si sarebbe liberato di ciò che gli psicologi chiamano «deriva attenzionale», l’innata tendenza della mente a volare altrove, a preoccuparsi di ciò che non c’è. E, di conseguenza, a soffrire.

Secondo lo studio di Harvard, il nostro livello di felicità è infatti correlato alla capacità di essere presenti alle nostre azioni. Invece, in media, metà del nostro tempo la impieghiamo pensando a cose diverse da quelle che stiamo facendo. Ebbene: secondo una produzione scientifica ormai sterminata, la meditazione rende la nostra mente meno distratta, dunque meno infelice.

Presa in sé, la meditazione consiste in una serie di esercizi mentali che permettono di seguire ciò che fa la mente mentre lo sta facendo. Ci si focalizza sulle sensazioni corporee e si osserva in terza persona il fluire dei propri pensieri. Questo «sforzo senza sforzo», come lo definiscono i buddisti, oggi può essere misurato grazie alle tecnologie di neuroimmagine, ed è stato sperimentato nella cura di numerosi disturbi di natura psicologica. Trattamenti standardizzati basati sulla meditazione mindfulness possono essere applicati a diversi tipi di terapie: riduzione dello stress, disturbi alimentari, prevenzione di ricadute della depressione.

La mindfulness si è rivelata anche un eccezionale strumento per far emergere capacità naturali della mente, normalmente inibite. Lo illustra bene uno studio del Wake Forest Baptist Medical Center apparso sul Journal of Neuroscience. Secondo lo studio, i soggetti hanno mostrato un incremento nell’attività di aree cerebrali che gestiscono il controllo cognitivo, oltre a una disattivazione del talamo, coinvolto nella percezione del dolore. La meditazione, dunque, allena la mente ad agire su funzioni normalmente non controllabili. E, nei meditatori esperti, induce modificazioni sensibili in almeno otto aree del cervello, come mostra una recente ricerca condotta dall’University of British Columbia pubblicata su Neuroscience & Biobehavioral Reviews. La differenza più notevole riguarda l’incremento della superficie della corteccia cingolata anteriore, un’area coinvolta nel controllo dell’attenzione. Altri studi hanno riscontrato invece una riduzione dell’amigdala destra, regione collegata all’elaborazione delle emozioni negative.

Non a caso, chi medita ha una minore tendenza a rimuginare, a somatizzare lo stress, ad ammalarsi. I test hanno rivelato che anche un’esperienza limitata può modificare gli equilibri biochimici, con esiti sorprendenti. Uno studio della University of Wisconsin diretto da Richard Davidson, personalità di spicco nell’ambito delle ricerche sulla meditazione, ha mostrato che due mesi di pratica sono sufficienti a incrementare la produzione di anticorpi. E i neurotrasmettitori coinvolti nel potenziamento immunitario presiedono anche a molte altre funzioni, ragione per cui la meditazione è utilizzata con successo per i più disparati disturbi: cardiovascolari e digestivi, ma anche dolori cronici, cefalee, insonnia.